Prima degli anni 60 i pazienti che sviluppavano
una sindrome uremica in fase terminale erano inevitabilmente destinati
alla morte, nel giro di pochi giorni o settimane, eccezion fatta per quei
pochi che ricevevano un trapianto di rene da parte di donatori gemelli
monozigoti e nel caso di fortunati tentativi sperimentali di trapianto
da donatore cadavere, che peraltro esitavano soltanto in un breve prolungamento
della vita dei pazienti.
I primi esperimenti di dialisi risalgono al 1913 e nel 1943 vi era un
primo successo clinico nel trattamento dell’ insufficienza renale acuta
mediante emodialisi da parte di Kolff e Kampen; la successiva introduzione
della dialisi extracorporea di mantenimento permise ai pazienti con insufficienza
renale terminale di prolungare la propria vita, a volte per anni, permettendo
quindi un trattamento sostitutivo in una grande popolazione di pazienti
con nefropatia terminale.
Subito si evidenziò che un accesso vascolare adeguato, duraturo
e non traumatico per i vasi era requisito fondamentale per l’esecuzione
di un efficace trattamento.
Durante la seduta dialitica, infatti, il flusso di sangue da e per il
filtro dializzante è continuo, con un passaggio globale di un quantitativo
che va dai 70 ai 90 litri di sangue per ciascuna seduta; l’ accesso vascolare
quindi deve avere particolari caratteristiche di flusso e portata.
Infatti per avere dei flussi efficaci per una dialisi bisogna disporre
di un vaso che abbia un’alta portata ed un’alta pressione, da cui poter
agevolmente prelevare il sangue e di un vaso di grosso calibro, elevata
portata e bassa pressione per il ritorno al paziente di sangue già
dializzato; vasi con tali caratteristiche potrebbero in effetti essere
un’ arteria il primo ed una vena di buone dimensioni il secondo.
Le prime sedute dialitiche venivano eseguite procedendo alla cateterizzazione
intermittente di arterie e vene periferiche tramite cannule di vetro o
di metallo, suturando poi i vasi al termine di ogni seduta, apportando
in tal modo notevole disagio al paziente, al personale medico ed infermieristico
e conducendo rapidamente ad un esaurimento dei vasi superficiali utilizzabili;
frequente era inoltre la puntura diretta dell’arteria radiale, della vena
femorale o della cava inferiore e per il rientro la vena femorale controlaterale.
Nel 1959 veniva descritto un catetere a doppio lume e più tardi
con Seldinger iniziava la cateterizzazione dei vasi femorali mediante la
tecnica che da lui prese il nome.
Bisognerà quindi aspettare il 1960 anno in cui Quinton, Dillard
e Scribner di Seattle realizzarono il primo shunt artero-venoso e finalmente
il 1966 quando Brescia e Cimino di New York costruirono la prima fistola
artero-venosa endogena, soddisfacendo in tal modo le caratteristiche richieste
ad un accesso vascolare definitivo.
Una possibile alternativa, specie in quei pazienti in cui esistevano
problemi tali da rendere difficoltoso il confezionamento di una fistola
nativa, consisteva nell’ utilizzo di autoinnesti vascolari e di innesti
vascolari sintetici, tecniche sviluppatisi negli anni successivi.
Non v’è dubbio che un’ accesso vascolare durevole nel tempo sia
il dispositivo che meglio assicura un efficace trattamento dialitico cronico.
A tal proposito la fistola artero-venosa proposta da Cimino e Brescia rimane
a tutt’ oggi l’ accesso permanente di prima scelta.
Tale accesso è ottimale per la buona conduzione della seduta
dialitica principalmente perché conserva una buona pervietà
a lungo termine e per una bassa incidenza di complicanze infettive o trombotiche;
inoltre la sua localizzazione immediatamente sotto il derma ne permette
una facile e ripetuta puntura transcutanea.
Provvista di un vaso venoso di adeguato calibro, la fistola endogena
può essere costruita a livello del polso (fistola distale) o a livello
della faccia anteriore del gomito (fistola prossimale). Sfortunatamente
esistono condizioni che rendono difficile o addirittura impossibile la
costruzione di tale accesso vascolare: come la sclerosi o la trombosi dei
vasi venosi, solitamente per venipunture ripetute nel tempo, o l’ esistenza
di vasi venosi sottili, fragili e profondi nel tessuto sottocutaneo come
spesso si può osservare nelle donne in età post-menopausale.
Nei pazienti diabetici, inoltre, si assiste frequentemente ad insuccessi
dovuti ad un inadeguato flusso arterioso per l’ angiosclerosi tipica di
questi pazienti.
Nella scelta del sito in cui eseguire l’ anastomosi solitamente si predilige
la tabacchiera anatomica per una minore incidenza di infezioni e per una
minore entità della sindrome da furto arterioso e di ipertensione
venosa distale; sono queste considerazioni particolarmente importanti nei
pazienti ad alto rischio di aterosclerosi come gli anziani e i diabetici.
Importante, inoltre, è risparmiare la vena safena che può
essere utilizzata per possibili future ricostruzioni arteriose; da preferire
infine l’ arto non dominante sia per facilitare l’ eventuale auto-venipuntura
da parte del paziente, sia per lasciare libero l’ arto dominante nel corso
della seduta dialitica.
La tecnica chirurgica consiste nel collegamento (anastomosi) di un vaso
arterioso donatore ed un vaso venoso adiacente e può essere condotto
in modalità:
-
latero (arteria) - laterale (vena): è il tipo tecnicamente
più agevole; vena ed arteria sono affiancate longitudinalmente
-
latero (arteria) - terminale (vena): il vaso venoso viene
connesso lungo il diametro trasversale all’ arteria tramite arteriotomia
longitudinale
-
termino (arteria) - terminale (vena): i due vasi si affrontano
secondo il diametro trasversale del loro lume.
La modalità più utilizzata e quella latero-terminale. L’
intervento prevede, previa anestesia locale, un’ incisione cutanea a livello
della superficie anteriore del polso, che può essere condotta trasversalmente
o longitudinalmente. Una volta esposte l’ arteria radiale e la vena cefalica,
si introduce un piccolo catetere nella vena per favorirne la dilatazione;
quindi il vaso viene infuso con della soluzione fisiologica per favorirne
la pervietà. L’ estremità terminale della vena viene quindi
suturata alla parete laterale dell’ arteria radiale. Al completamento dell’
anastomosi si dovrebbe palpare, a livello della vena, il fremito, il cosiddetto
thrill. L’ assenza di tale fremito e la presenza della sola pulsazione
arteriosa trasmessa suggeriscono un occlusione venosa e quindi impongono
la necessità di una revisione della fistola stessa.
I problemi intraoperatori possono essere:
-
una rete venosa superficiale inadeguata, per vasi venosi di piccolo calibro
e/o sclerotici che non permettono una dilatazione strumentale superiore
a 3-4 mm di diametro
-
ipoplasia dell’ arteria radiale o calcificazioni parietali importanti
-
ipotensione con P.A. < 80 mmHg
Per l’ utilizzazione tale accesso richiede un periodo di "maturazione",
necessario per l’ arterializzazione dei vasi venosi, che diventano in tal
modo pungibili periodicamente; tale periodo è variabile e dipende
principalmente dalle caratteristiche dei vasi utilizzati nell’ anastomosi.
Un uso prematuro può portare alla perdita dell’ accesso in quanto
il segmento venoso non può tollerare ripetuti incannulamenti.
In considerazione di tutto ciò è sempre auspicabile una
programmazione della costruzione dell’ accesso vascolare, programmazione
che dovrà prevedere l’ intervento almeno 15-30 giorni prima dell’
inizio del trattamento emodialitico. Questa sana abitudine non è
peraltro molto diffusa, per motivazioni varie tra le quali è da
menzionare la comodità e relativa sicurezza del sempre più
utilizzato accesso temporaneo per incannulamento transcutaneo (catetere
femorale).
Per quanto riguarda le fistole prossimali queste, di solito, vengono
costruite qualora vi sia stato un fallimento, precoce o tardivo, dell’
intervento distale. Inoltre anche in individui con vasi arteriosi di piccolo
calibro, per ipoplasia, angiosclerosi o calcificazioni tale sede può
essere un’ ottima alternativa a quella distale.
A questo livello c’è il vantaggio di poter utilizzare un’ arteria
donatrice, quella omerale, ad alta portata; tali accessi si è visto
che possono fornire un flusso di 599 ±
163 ml/min.
A differenza delle fistole distali queste possono essere utilizzate
anche a distanza di 48 ore dalla loro costruzione, poiché la portata
elevata dei vasi non richiede un periodo di maturazione prima della venipuntura.
Le complicanze dell’accesso vascolare permanente consistono principalmente
in:
-
Trombosi
-
Infezioni
-
Ischemia
-
Insufficienza cardiaca
-
Aneurismi e pseudoaneurismi
La bassa sopravvivenza delle fistole endogene è da ricollegarsi
principalmente alla precoce chiusura, di solito entro il primo mese dall’intervento;
nessuna differenza di sopravvivenza è stata osservata tra le fistole
distali e quelle prossimali.
Trombosi
La trombosi è la causa più comune della perdita dell’
accesso vascolare che più spesso insorge per una riduzione del flusso
ematico dell’ innesto che può essere provocato da:
-
Errori tecnici durante la preparazione chirurgica
-
Stenosi venosa
-
Eccessiva compressione della fistola dopo la dialisi
-
Errato incannulamento
-
Ipotensione
-
Ipovolemia
-
Compressione accidentale della fistola per assunzione di particolari posizioni
durante il sonno
-
Stenosi arteriosa
-
Diatesi trombotica
Altri fattori possono essere importanti nel determinare la trombosi della
fistola. La presenza di anticorpi anticardiolipina è associata a
frequenti stenosi dell’ innesto; anche condizioni di ipercoagulabilità
possono provocare gli stessi problemi. La terapia con eritropoietina esplica
uno scarso effetto sulla trombosi dell’ accesso se si mantiene l’ ematocrito
ai valori raccomandati.
La trombectomia chirurgica è stata per lungo tempo l’ intervento
d’ elezione per la disostruzione dell’ accesso vascolare, da effettuare
tramite catetere di Fogarty in anestesia locale; tale manovra può
essere differita per 24-48 ore, ma dovrebbe essere eseguita il più
presto possibile, prima cioè che il trombo vada incontro ad una
completa organizzazione. Scarsi risultati sono stati ottenuti con l’ uso
di agenti trombolitici, in quanto è stato possibile ripristinare
la pervietà dell’ accesso in meno del 60% dei casi e sono state
frequentemente osservate complicanze emorragiche gravi.
Se la stenosi è dovuta ad un’ ostruzione meccanica questa deve
essere corretta al più presto; ad esempio in una fistola endogena
un piccolo tratto stenotico può essere riparata usando un "patch"
venoso. Comunque se la stenosi è localizzata a livello dell’ anastomosi
è conveniente crearne una nuova utilizzando una vena già
dilatata e il tratto più a monte dello stesso tronco arterioso.
Infezione
L’ infezione della FAV è la seconda causa più frequente
della perdita dell’ accesso e rappresenta circa il 20% di tutte le complicanze
dell’ accesso vascolare sintetico. Al contrario l’ infezione delle FAV
endogene è alquanto raro ed è dovuto nella maggior parte
dei casi all’ inoculazione batterica in corso di incannulamento localizzandosi
prevalentemente nella sede di puntura. Anche per quanto riguarda le protesi
sintetiche l’ infezione è da correlarsi all’ inoculazione durante
la puntura pre-dialitica; la presenza di un ematoma a livello della protesi
o di un aneurisma con trombo associato aumentano notevolmente il rischio.
Ischemia distale
I sintomi di ischemia dell’ estremità distale dell’ arto interessato
dalla FAV non sono molto frequenti, ma sono difficili da risolvere ed interessano
più facilmente pazienti in cui già preesiste una vasculopatia
periferica importante.
Un flusso ematico deficitario alla mano deriva dallo shunt diretto verso
una fistola prossimale e dalla sindrome da furto arterioso, in cui il flusso
arterioso viene shuntato dal circolo palmare alla fistola tramite l’ arteria
radiale.
L’ ischemia si manifesta con la comparsa di dolore a riposo, con cianosi
e riduzione del termotatto alla mano, quando questa viene tenuta in posizione
declive; tali disturbi sono più evidenti nei pazienti diabetici.
I disturbi spesso si attenuano nelle settimane successive alla costruzione
della fistola, per lo sviluppo di circoli collaterali. Se questo non fosse
sufficiente si può tentare di ridurre il flusso ematico nella fistola,
favorendo quindi il flusso verso l’ estremità distale dell’ arto,
con un bendaggio, con la piegatura dell’ innesto o con l’ interposizione
di un altro innesto, anche se di solito non si ottengono dei risultati
incoraggianti.
Insufficienza cardiaca
Nei pazienti in cui esistono già delle cardiopatie (scompenso
cardiaco congestizio di qualsiasi natura, coronaropatia, cardiopatia ipertensiva)
la costruzione di una FAV può favorire l’ insorgenza di complicanze
cardiache che vanno dall’ ipotensione ad uno scompenso cardiaco ad alta
gittata. Tali complicanze sono più frequenti se il flusso della
fistola eccede il 20% della gittata cardiaca. Anche in questo caso si dovrebbe
tentare con artifici tali da ridurre il flusso della fistola (bendaggi,
kinking dell’ innesto...), ma, data l’ elevata percentuale degli insuccessi
il legamento dello shunt rimane il trattamento risolutivo dei caso refrattari.
Aneurismi e pseudoaneurismi
La puntura ripetuta nello stesso sito della fistola può provocare
la formazione di aneurismi e pseudoaneurismi; tali complicanze sono particolarmente
importanti nelle fistole sintetiche, causa il danno progressivo che si
viene a determinare sul PTFE impiantato. Per ridurre l’ incidenza
di tali complicanze è consigliabile la rotazione delle sedi di venipuntura.
Aneurismi e pseudoaneurismi generalmente si trattano mediante revisione
chirurgica dell’ accesso, con escissione o legatura dell’ area interessata.
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